“Nel Dap una struttura di intelligence parallela” | La relazione del Copasir al Parlamento

di Redazione

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“Nel Dap una struttura di intelligence parallela” | La relazione del Copasir al Parlamento

| mercoledì 01 Aprile 2015 - 17:01

Il Dap aveva “una vera e propria struttura parallela di intelligence” che operava per raccogliere informazioni sui detenuti sottoposti al regime di carcere duro. E’ quanto evidenzia la relazione del Copasir sui casi ‘Farfalla, Rientro e Flamia, consegnata ai presidenti di Camera e Senato. Gli anni presi in considerazione sono quelli tra il 2003 ed il 2007.

L’allora ministro della Giustizia, Roberto Castelli, ascoltato dal Copasir, ha informato che “all’interno del Dap era stata costituita, a mia totale insaputa, una centrale di ascolto che intercettava i mafiosi”.

Il Comitato ha ascoltato sulla vicenda l’attuale Guardasigilli, Andrea Orlando, che ha parlato di “profili di irregolarità amministrativa” in riferimento alla gestione dell’Ufficio ispettivo del Dap all’epoca in cui era diretto da Salvatore Leopardi. Il ministro ha riferito che “fu riscontrata la presenza di articolazioni periferiche istituite presso i provveditorati regionali con provvedimento del direttore dell’ufficio ispettivo. Tali articolazioni sotto la direzione unica della struttura centrale risultavano avere il compito di svolgere analisi e monitoraggio dei detenuti sottoposti al regime di cui al 41-bis, sulla base di accordi intervenuti tra il Dipartimento e la Direzione nazionale antimafia”.

Orlando ha poi aggiunto che “non si può logicamente escludere che in tale attività, della quale non risultano tracce documentali, siano refluiti anche gli esiti di operazioni parallelamente svolte in collaborazione con le agenzie di sicurezza o dalle agenzie stesse”.

Il Copasir ha esaminato anche le operazioni Rientro e Flamia, per le quali invece l’intelligence avrebbe invece agito correttamente. La relazione del Comitato, approvata all’unanimità dai dieci componenti, è stata inviata ai presidenti di Camera e Senato.

Il documento – relatore il vicepresidente del Comitato, Giuseppe Esposito – è il risultato di 21 audizioni svolte tra ottobre e febbraio e dell’esame di oltre tremila pagine di documenti prodotti e acquisiti. La lente del Comitato di controllo è stata posta su due operazioni che avevano visto collaborare agenti penitenziari e agenti dei servizi di sicurezza, tra il 23 giugno 2003 ed il 18 agosto 2004 (operazione Farfalla) e tra il 25 novembre 2005 ed il 2 febbraio 2007 (operazione Rientro).

Nel corso delle audizioni è emerso un ulteriore filone d’indagine relativo alla collaborazione del pregiudicato Sergio Flamia con i servizi tra il luglio del 2008 e l’ottobre del 2013. La più controversa è la prima, avviata dal Sisde per raccogliere informazioni, tramite il Dap, da otto detenuti (Buccafusca, Cannella, Rinella, Genovese, Angelino, Pelle, Di Giacomo e Massaro) che, sentendosi abbandonati dalle proprie famiglie o dalle organizzazioni criminali di appartenenza, avrebbero potuto avviare una collaborazione con il servizio. Nessuno dei detenuti ‘attenzionati’ è poi diventato una fonte fiduciaria del Sisde e l’operazione si chiusa con un fallimento.

Protagonisti dell’attività gli allora direttori di Sisde e Dap, Mario Mori e Giovanni Tinebra ed il responsabile dell’Uffici ispettivo del Dap, Salvatore Tinebra. I termini dell’operazione, trattati a voce tra i dirigenti di Sisde e Dap, furono sintetizzati in un unico appunto datato 24 maggio 2004, in cui si fissarono i criteri, i nominativi e le procedure del rapporto.

In un precedente appunto informale datato 21 luglio 2003, si evidenziano le esigenze del servizio, tra le quali compare la realizzazione dei contatti con i detenuti “al fine di sviluppare autonome e mirate azioni di intelligence, non intaccate da ulteriori interessi da parte di altri organismi”. Per il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato in questo modo la polizia penitenziaria, invece di informare la magistratura, avrebbe informato il Sisde. Mori ha negato questa interpretazione.

La legge, puntualizza la relazione, stabilisce che notizie di reato “dovevano essere trasmesse comunque all’autorità giudiziaria da parte degli operatori di polizia giudiziaria del Dap, primi ed unici ‘ascoltatori’ dei detenuti all’interno delle carceri italiane”. E’ emerso inoltre che di questa operazione “non vi sarebbe stata alcuna specifica informativa destinata all’Autorità politica pro tempore”. I due ministri dell’epoca Giuseppe Pisanu (Interno) e Roberto Castelli (Giustizia), ascoltati dal Comitato, hanno riferito di non essere stati informati.

Il ruolo di Tinebra, lamenta, il Copasir, ne esce oscurato da un secco “non so e non sapevo”, aggiungendo di avere delegato tutto a Leopardi. Quest’ultimo lo smentisce riferendo aver più volte informato il direttore del Dap sul prosieguo dell’operazione. Lo scambio informativo tra Sisde e Dap è avvenuto per la maggior parte tramite comunicazioni date a voce, non codificate e non protocollate. Nessun documento in merito risulta prodotto dal Dap.

Il rapporto informativo instaurato tra i due organismi nell’operazione Farfalla, sottolinea il Comitato, “è stato costruito solo sulla base di conoscenze personali tra i rispettivi dirigenti e direttori degli enti e non sulla base di regole precise, concordate e codificate”. Non è stato pertanto rispettato l’articolo 6 della legge 801 del 1977, secondo cui “Il Ministro per l’interno, dal quale il Sisde dipende, ne stabilisce l’ordinamento e ne cura l’attività sulla base delle direttive e delle disposizioni del Presidente del Consiglio dei Ministri” e ancora “il Sisde è tenuto a comunicare al Ministro per l’interno e al Comitato esecutivo per i Servizi di informazione e sicurezza (Cesis) tutte le informazioni ricevute o comunque in suo possesso, le analisi e le situazioni elaborate”.

“Con queste premesse – evidenzia la relazione – l’operazione Farfalla non poteva che risultare fallimentare, così come poi è stata, con il coinvolgimento di uomini del Dap, del Sisde e della magistratura che sono stati distolti da attività più utili e produttive per l’Italia e per i cittadini. L’assenza di riscontri documentali e la gestione poco trasparente dell’attività ha giustificato ricostruzioni e letture dietrologiche di deviazioni, calibrate ad una trattativa tra lo Stato e la criminalità”.

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