Arancina, storia di santità e perfezione: ecco perché è femmina

di Emanuele Termini

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Arancina, storia di santità e perfezione: ecco perché è femmina

| lunedì 12 Dicembre 2016 - 17:51

In principio erano solo “accarne” e “abburro”. Si narra che il 13 dicembre 1646, giorno di S.Lucia, al termine di una lunga e mortifera carestia, a Palermo sia giunto un carico di cereali. Riso, per lo più. Un ingrediente non molto stimolante per i lussuriosi palati palermitani che si trovarono allora davanti a un bivio senza ritorno: o prolungare il “pititto” (la fame) oppure scervellarsi per inventarsi una ricetta degna della tradizione culinaria palermitana.

A quel punto sembra che la Santa siracusana, martire per mano di Diocleziano, abbia infuso nella mente di qualche illuminato palermitano l’idea, l’ispirazione sacra, l’afflato divino: una sfera di riso ripiena di ragù o di burro e fritta in abbondante olio d’oliva. Fu un successo di proporzioni storiche se è vero che a quasi cinque secoli di distanza, il 13 dicembre, a Palermo, si fa a gara a chi prepara le Arancine più buone o a chi le compra nel bar migliore.

E sebbene molti palermitani vivano ancora questo giorno come un giorno di penitenza, senza né pane e né pasta, quasi come fosse un piccolo ramadan cristiano, in realtà è un orgasmico tripudio collettivo. Con il passare del tempo, ovviamente, molte cose sono cambiate. La globalizzazione è intervenuta con mano pesante, trasformando la semplice scelta tra arancine con carne o con burro (e prosciutto) in una vera e propria selezione tra combinazioni di anno in anno sempre più sofisticate: con spinaci, con funghi, con salmone, con la salsiccia, ai 4 formaggi, con frutti di mare, con gamberi, con melanzane e ricotta etc…Una lista sconfinata, limitata solo dalla fantasia dei maestri rosticcieri palermitani.

È quindi un rito antichissimo che ogni anno si ripete inesorabilmente. Come il sangue di San Gennaro che ogni 19 settembre si scioglie dentro l’ampolla, così migliaia di arancine il 13 dicembre sbucano fuori, belle e sfrigolanti, da mari di olio bollente. Così è a Palermo. Ma in altre parti della Sicilia e del mondo, la corruzione ha prevalso sull’originale. Da Trapani a Catania, passando per Agrigento e Messina, si cucinano e si mangiano gli “arancini”. Letteralmente piccoli alberi di arance. Pietanze imperfette, se è vero che è la sfera ad incarnare i caratteri della perfezione.

Il filosofo greco Parmenide paragonava l’Essere a una sfera chiusa e finita, perché per i greci il finito era sinonimo di perfezione. La punta dei cosiddetti arancini, invece, non “chiude” nulla e mira all’infinito. Gli arancini peraltro non hanno peraltro nessuna storia. Per i popoli che li “gustano”, gli arancini non sono altro che originali impasti di riso. La forma che nasconde la sostanza. Come la mela grattugiata dei bambini.

Persino la Crusca è scesa in campo facendo chiarezza sulla superiorità dell’Arancina. Ma dall’altra parte non si sentono ragioni. Da diversi anni, ormai, molti “crociati” dell’Arancina promuovono campagne per riaffermarne la femminilità. Essa è femmina non solo per la sua innegabile somiglianza con l’arancia, ma anche per il suo essere sfera, perfetta e appunto femmina. È una battaglia di civiltà, di cultura, di storia. Perché da che mondo e mondo, sono gli arancini ad essere (s)venduti in giro per l’Italia sotto il nome di supplì o di timballetto. Tutti uguali nella loro imperfezione. Viva Santa Lucia e viva l’Arancina.

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