Donne e bambini vittime di violenza, perchè si arriva a uccidere chi si ama

di Redazione

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Donne e bambini vittime di violenza, perchè si arriva a uccidere chi si ama

| venerdì 17 Maggio 2013 - 18:49

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PALERMO, 17 MAGGIO 2013 – Quando la cronaca ci sbatte in faccia tragedie come quella di Misilmeri o quella evitata per miracolo della madre dello Sri Lanka, è difficile dare una spiegazione. Nell’immaginario collettivo poche parole, magari banali, sintetizzano la reazione di ciascuno: “Non c’è più mondo”.

Una semplificazione che però non è solo l’interpretazione dell’uomo della strada ma ha anche un fondamento scientifico.

 

“C’è un disagio sociale che sta esplodendo – spiega Flora Inzerillo, psicoterapeuta del Policlinico di Palermo – . La nostra società non garantisce più punti di riferimento e in soggetti che hanno una psicopatologia latente questo provoca uno scompenso. L’emersione di una psicopatologia latente non può mai essere letta isolata dal contesto sociale”.

 

Psicopatologia latente non significa essere ammalati, significa magari soffrire di un disagio e non saperlo nemmeno. Un tarlo che si annida dietro una vita apparentemente tranquilla, dietro un tran tran senza scosse. Ma se questo tarlo viene alla luce lo fa nel modo peggiore.

 

Un disagio che in alcuni casi esplode, con violenza inaudita e che prende di mira troppo spesso i figli. Ivan Irrera ha sparato al figlio prima di togliersi la vita, Asha Krisanthi Peper Amarasinghe avrebbe secondo gli inquirenti lanciato la figlia nel vuoto per poi seguirla.
“I figli – dice Inzerillo – rappresentano la propria progettualità ma anche il proprio fallimento. Per questo su di essi si proietta tutto il disagio, sui figli e non sul coniuge perchè i figli rappresentano un’appendice di sè stessi”.

 

Quando la violenza si riversa sulle donne, questa risponde ad un’altra chiave di lettura che anche in questo caso è comunque legata alla società in cui viviamo. “C’è un livello genitoriale – sottolinea la dottoressa Inzerillo – , quello che porta ad identificare la donna nella madre ‘cattiva’. C’è una sfera sessuale, quella del desiderio frustrato. Ma c’è un livello più pericoloso, quello della competizione con le donne. L’uomo non tollera la sconfitta che, in termini di potere, la donna gli infligge”.

E se la violenza non ha mai una giustificazione, questa teoria rimanda comunque ad un fattore culturale.
Non esiste certamente una ricetta ma è chiaro che è necessario educare al cambiamento, educare a considerare le donne da pari e non da rivali, educare la società a recuperare i valori che sono venuti meno e che fanno “perdere la bussola”.

“Ma soprattutto – conclude Inzerillo – educare a parlare: se le proprie sofferenze si trasformano in parole è più difficile che sfocino in gesti, anche estremi”.

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