23 maggio 1992, l’attentato al giudice Giovanni Falcone | Cosa successe quel giorno a Capaci

di Alessandro Amato

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23 maggio 1992, l’attentato al giudice Giovanni Falcone | Cosa successe quel giorno a Capaci

| venerdì 23 Maggio 2014 - 10:56

Il 23 maggio 1992 in un attentato mafioso morirono Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montanari. All’altezza dello svincolo di Capaci  sulla A29 il magistrato palermitano venne ucciso per volere di Cosa nostra. La decisione di mettere a segno l’attentato la presero i vertici dell’organizzazione mafiosa nel corso di alcuni incontri della “Commissione” regionale di Cosa Nostra, tra il settembre e il dicembre del 1991.

Le riunioni, presiedute dal boss sanguinario Salvatore Riina, non decretarono solo la morte di Falcone, ma misero in piedi un programma di attentati con diversi obiettivi. Nello stesso periodo, infatti in una riunione a Castelvetrano vennero organizzati non solo l’attentato a Giovanni Falcone, ma anche quelli all’allora ministro Claudio Martelli e al giornalista e conduttore televisivo Maurizio Costanzo.

Il progetto iniziale però subì delle modifiche. Infatti, come confermato dalla Cassazione a seguito degli ergastoli, la “Commisione” mafiosa ha deciso di far partire, nel febbraio 1992, da Palermo a Roma un gruppo di fuoco composto da Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro, Vincenzo Sinacori, Lorenzo Tinnirello, Cristofaro Cannella, Francesco Geraci. Il commando avrebbe dovuto colpire con armi automatiche Falcone, Martelli e Costanzo, ma qualcosa andò diversamente. Per decisione di Totò Riina i killer tornarono in Sicilia e venne organizzato l’attentato sull’autostrada.

Furono i capi mandamento di San Lorenzo, Salvatore Biondino, Raffaele Ganci della Noce e Salvatore Cancemi di Porta Nuova a fare gli appostamenti allo svincolo di Capaci per capire quale fosse il luogo più adatto per mettere a segno l’attentato. Fu Pietro Rampulla a confezionare l’ordigno che con 400 chilogrammi di tritolo distrusse un intero tratto autostradale e diede una coltellata al cuore della Repubblica italiana. I fustini carichi di esplosivo vennero fatti scivolare in un canale di drenaggio sotto l’autostrada. A piazzare l’esplosivo dallo stesso Rampulla insieme a Giovanni Brusca, Antonino Gioè, Santino di Matteo, Gioacchino La Barbera e Leoluca Bagarella. Anche il telecomando usato per far detonare le cariche fu procurato di Rampulla, ma gestito e trasportato sul luogo dell’attentato da Giovanni Brusca.

Il piano che portò al giorno dell’attentato vide l’inizio delle ultime fasi una settimana prima. Antonio Montinaro, caposcorta di Giovanni Falcone, fu pedinato per giorni da Raffaele Ganci e dal nipote Antonino Galliano. Il pedinamento andò avanti fino al 23 maggio quando Ganci avvertì Giovan Battista Ferrante e Salvatore Biondo che le Fiat Croma del magistrato si stavano muovendo verso l’aeroporto per andare a prendere il magistrato a Punta Raisi. I due mafiosi avvertiti da Montinaro misero in allerta anche Giovanni Brusca e Antonino Gioè che si trovavano sulle colline che circondano il tratto autostradale.

Fu Gioacchino La Barbera a seguire, su una strada parallela, le auto di Falcone al ritorno dall’aeroporto. Mentre seguiva il convoglio, La Barbera, si manteneva in costante contatto telefonico con Gioè e Brusca fino a pochi secondi prima dell’esplosione. Fu Brusca a far detonare la bomba che ha distrutto la strada e le vite del magistrato antimafia, di sua moglie e dei tre uomini della scorta.

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