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Il silenzio sul Mezzogiorno, i referendum | e la prospettiva di una nuova crescita

Mentre il Parlamento europeo rilancia la questione insulare ed i temi della coesione economico – territoriale, in Italia le misure di riequilibrio tra Nord e Sud sono da tempo scomparse dall’Agenda politica. Dopo la rimozione del Mezzogiorno dalla Costituzione e la decostituzionalizzazione, la coesione più che a concrete misure finanziarie di superamento del divario Nord-Sud si affida a slogan (‘il sud riparte’), tweet e fantomatici masterplan. È di queste ore la notizia diffusa dai media che sancisce, ancora una volta, la crescita del divario nord-sud.

Secondo l’Istat, ma si tratta di analisi che trova conferme nei dati diramati negli ultimi mesi da Bankitalia, Svimez, Fondazione Curella, ed altri istituti di ricerca, il Pil pro capite nel Mezzogiorno (16.761 euro) è sceso sino a raggiungere quasi la metà di quello del Nord Ovest (30.821) e del Nord Est (29.734 euro) (Rapporto ‘Noi Italia’ su dati del 2014). Si tratta del peggior dato degli ultimi dieci anni e tali proporzioni si aggraveranno con i risultati economici del 2015. Non potevano che essere questi i risultati della fine delle politiche di riequilibrio e di superamento del divario che nell’ultima legislatura si è progressivamente consolidato.

Dopo la desertificazione industriale, l’emigrazione – prima dei laureati e adesso degli studenti – ha fatto perdere alle Università del sud il 30% di studenti e di risorse, rendendo irreversibile un declino che si aggrava di anno in anno. Lo conferma il rapporto “Università in declino. Un’indagine sugli atenei da Nord a Sud” della Fondazione Res (a cura di G. Viesti, Roma  2016) dal quale emerge un sistema formativo sempre più differenziato fra sedi più e meno dotate. E le regole dettate dal governo accentuano questa biforcazione. Oltre il 50% del  calo degli immatricolati è concentrato nel Mezzogiorno (-37.000 dal 2003-04 al 2014-15); maggiore è la quota di studenti che abbandona gli studi universitari dopo il primo anno (il 17,5% al Sud, contro il 12,6% al Nord e il 15,1% al Centro), la  diminuzione del personale docente di ruolo è stata del 18,3% nel solo Mezzogiorno, ed un terzo dei giovani meridionali si iscrive nelle Università del centro-nord che stanno cannibalizzando quelle del sud.

La “questione petrolifera”, rilanciata più che da un (appositamente) narcotizzato dibattito referendario in vista del l’imminente voto del 17 aprile sul tema delle trivellazioni a mare entro le 12 miglia dalla costa, dagli scandali che hanno condotto alle dimissioni del ministro competente, ripropone il tema dello sviluppo del Sud. Per il Governo, replicando politiche industriali degli anni ’50 del secolo scorso, passa ancora per lo sfruttamento delle risorse naturali e l’allocazione stabilimenti di imprese incentivate (FIAT etc.) e delle imperiture partecipazioni statali (Eni, Enel). Un modello che è risultato fallimentare non solo perché per le ultime, appena terminati gli incentivi, queste lasciano repentinamente il campo (Termini Imerese ne è la drammatica prova), ma sopratutto per i devastanti effetti inquinanti di scelte (non solo di estrazione, ma anche di raffinazione) che fanno carico al sud del maggiore contributo energetico al Paese (anche qui Gela, Augusta, Priolo sono un disastroso esempio di abbandono).

Ma quel modello di sviluppo è fallimentare non solo per gli effetti più evidenti, ma sopratutto perché ê in totale contraddizione con le potenzialità che in questi anni ha maturato il Sud: cultura, turismo, agricoltura di qualità, servizi avanzati. Le classi dirigenti del sud, sopratutto politiche e sindacali, ma anche imprenditoriali ed intellettuali sono in gran parte asservite, spesso per interesse diretto, a scelte disastrose che non offrono una prospettiva credibile di crescita, ma aggravano lo sfruttamento e non garantiscono tempi di reazione adeguati. Lo sosteneva un grande storico siciliano: “la mancata soluzione della cosiddetta questione meridionale, della cui storia la Sicilia è stata parte, può essere assunta a spiegazione di quel che è mancato al popolo siciliano per beneficiare del bene dell’autonomia” (F. Renda, Introduzione, in  AA.VV., La Sicilia è l’Unità d’Italia, Soveria Mannelli, 2011, 48)

Ci sono adesso due appuntamenti per far sentire la voce del Sud. I referendum che si terranno il 17 aprile e quello d’autunno, confermativo di una rabberciata modifica della Costituzione senza Mezzogiorno.cEntrambi i referendum recano ben più di quel che si può leggere nei quesiti, anche per la scelta miope di trasformarli in plebiscito sull’azione di governo. Rifuggendo da una deprecabile tradizione di scarso afflusso al voto, facciamo sentire la voce di una profonda protesta democratica a chi vuol riservare al Sud ed alla Sicilia un misero destino di sfruttamento.

Gaetano Armao

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