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Brexit, l’Inghilterra nella morsa dell’isolazionismo | Grande opportunità o caos? Ecco cosa rischia l’UK

Il 23 giugno la Gran Bretagna deciderà se restare o meno nell’Unione Europea. Il referendum è il risultato delle promesse del primo ministro Cameron nel gennaio 2013: se rieletto a Downing Street nel 2015 – affermò allora – avrebbe rinegoziato con le istituzioni europee i termini della permanenza dei britannici in seno all’unione e indetto un referendum entro il 2017.

Cameron era preoccupato della crescente popolarità dell’UKIP, partito populista ed euroscettico guidato da Nick Farage: nelle elezioni europee del 2009 era stato il secondo partito britannico. Nel 2014 vinse poi le europee successive con oltre il 27% dei voti: non accadeva da oltre 100 anni che il partito più votato non fossero i Tories o il Labour. Le consultazioni politiche del 2015 hanno poi ridimensionato i suoi consensi ad un pur ragguardevole 12.6%.

Il febbraio scorso Cameron ha negoziato con Bruxelles alcuni punti chiave: “un argine” al presunto rafforzamento delle istituzioni europee ai danni dell’indipendenza politica britannica; la possibilità di regolare l’ingresso di lavoratori da stati dell’unione quando i flussi raggiungono “livelli eccezionali” e di limitarne l’accesso ai “benefits sociali” in caso di disoccupazione; infine l’accordo salvaguarda gli interessi economici della Gran Bretagna, in caso di rafforzamento dell’integrazione economica e finanziaria dell’area Euro.

Tornato a Londra, il Premier britannico mantiene poi la seconda promessa: la sua proposta per un Referendum è approvata dal Parlamento. Europeista convinto, il Primo Ministro tenta a più riprese di convincere il Partito a mantenersi unito sulla linea europeista. Ma la linea dei Tories è alla fine un’altra, che lascia libero ciascuno di schierarsi secondo coscienza. Un duro colpo alla leadership di Cameron.

Il punto è che i negoziati con Bruxelles mirano a disinnescare i timori nati con la crisi economica globale: che la Gran Bretagna potesse essere “invasa” da cittadini provenienti dagli stati “falliti” dell’Europa del Sud (nel 2015 gli immigrati europei erano più che raddoppiati a circa 200mila) o che la politica monetaria della zona Euro discriminasse i britannici in termini di competitività.

Ma un nuovo spauracchio ha scosso l’Europa quest’anno: la migrazione globale dal sud del mondo e la difficolta di Bruxelles di dettare una politica comune per la gestione della crisi migratoria; la “Giungla”, tendopoli  di accampati a Calais, e i movimenti di migranti nella notte intorno agli accessi del tunnel della Manica ne sono stati una minacciosa e concreta rappresentazione. Nick Farage ha buon gioco a condannare la debolezza e confusione europea.

E così, sempre più preoccupati dalla crescente popolarità dell’UKIP nelle file del proprio elettorato, parecchi conservatori si sono uniti al fronte isolazionista. Ad esempio, Boris Johnson, già sindaco di Londra e figura molto popolare tra i Tories, si sta proponendo come campione dell’uscita dall’Unione (e si candida come alternativa a Cameron per la guida dei Tories); anche all’interno del Governo si appoggia la Brexit: è il caso del segretario alla Giustizia Michael Gove.

Inoltre i sondaggi, sostanzialmente favorevoli all’Europa per tutto il 2015, sono diventati più incerti quest’anno e mostrano in questi ultimi giorni una prevalenza degli isolazionisti. I mercati azionari mostrano di credere all’eventualità della Brexit e danno segni di nervosismo; il cambio Euro–Sterlina ha perso la stabilità degli ultimi anni.

In questo Referendum si affrontano due gruppi: “Stronger for Europe”  e “Vote Leave”.  I due schieramenti spiegano con argomenti opposti che, votando per loro, la Gran Bretagna si assicurera’ un futuro migliore.

Gli europeisti sostengono che l’economia britannica è profondamente integrata in Europa e che l’esclusione dal mercato unico e l’innalzamento di barriere doganali metterebbe a serio rischio le produzioni britanniche (ca. il 40% del totale è venduto in Europa). Sanità e Pensioni sarebbero a rischio, a seguito della contrazione economica.

Sul fronte opposto spiegano che la burocrazia di Bruxelles, con la regolamentazione dettagliata e pervasiva del mercato, è un freno per l’economica britannica; sostengono inoltre che la Gran Bretagna, che ha un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, non ha bisogno dell’Europa per difendere i propri interessi in ambito internazionale. Ricordano infine che Svizzera e Norvegia sono fuori dall’Unione e non sembrano risentirne eccessivamente.

L’Europa, da parte sua, sostiene le tesi europeiste ed alimenta le incertezze sul futuro di una Gran Bretagna fuori dall’Unione. Il ministro tedesco Shauble ha recentemente affermato che l’uscita dall’Europa e dal Mercato Unico andranno insieme per i Britannici.

In realtà, le regole per l’uscita dall’Unione Europea dovrebbero garantire una transizione controllata. Si tratta dell’Articolo 50 del trattato di Lisbona; in sostanza, dovesse Cameron notificare al Consiglio europeo l’intenzione di abbandonare l’Unione Europea, si aprirebbe un periodo di negoziati. Questi definiranno le future relazioni politiche ed economiche tra Europa e Gran Bretagna. Gli accordi dovranno poi essere accettati da almeno il 72% dei paesi membri che rappresentino almeno il 65% della popolazione europea. Sarà inoltre necessario il consenso del Parlamento europeo.

Sarebbe comunque un colpo tremendo per l’Europa che, dal trattato di Roma del 1957, non ha fatto che crescere ed integrarsi sempre più profondamente. E non solo. Anche all’interno della Gran Bretagna si potrebbe innescare un processo centrifugo: infatti, in Scozia, Galles ed Irlanda del Nord le formazioni indipendentiste sono tutte europeiste.

Giuseppe Citrolo

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Giuseppe Citrolo
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