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Economia, indipendenza, orgoglio nazionale | Ecco cosa c’è dietro il referendum su Brexit

Giovedì 23 giugno la Gran Bretagna sarà al centro dell’attenzione internazionale per la votazione sul referendum che riguarda la possibile uscita dall’Unione Europea. I sondaggi sul referendum britannico dicono che la vittoria del Leave è una possibilità molto concreta. Ma non comporterà l’uscita immediata della Gran Bretagna dall’Unione Europea; infatti il Trattato di Lisbona prevede che il governo britannico debba comunicare a Bruxelles la volontà di lasciare l’Europa. Le trattative – due anni in base al Trattato – disegneranno in seguito i futuri rapporti politici ed economici tra Gran Bretagna ed Unione. La Merkel ha di recente dichiarato che non ci sarà alcuna trattativa; questo però non è nell’interesse di nessuno, visti gli stretti rapporti economici tra britannici ed Europa.

Le ripercussioni politiche sul piano interno saranno, invece, immediate. Cameron ha dichiarato di voler guidare il suo Paese nei negoziati con Bruxelles, mentre molti danno per scontata una rapida uscita di scena del leader: è stato lui infatti a proporre il referendum e a spaccare il paese (ed il suo Partito) sul quesito del Remain or Leave. Sarà il momento della resa dei conti tra i Tories, con l’ala del Leave – Boris Johnson in testa – pronta a reclamare la leadership del partito e del governo.

Anche sul fronte laburista, ufficialmente a favore del Remain, il supporto tiepido di Corbyn lascerà il segno. Soltanto negli ultimi giorni, vista l’impennata del Leave, ha cancellato i propri impegni per dedicarsi alla campagna a tempo pieno. La vittoria del Leave è una sconfitta per i Laburisti, della quale Corbyn dovrà dare conto. E’ quindi probabile, dopo il Leave, un confronto nei maggiori partiti sulla futura leadership, con un occhio a Scozia ed Irlanda del Nord, le cui formazioni nazionaliste potrebbero rinfocolare le istanze indipendentiste in nome del ricongiungimento con l’Europa.

Il Parlamento britannico sarà chiamato a votare sull’uscita dall’Europa. Sebbene la maggioranza dei parlamentari sia per il Remain, un veto o un atteggiamento dilatorio sarebbe rischioso. Verrebbe infatti sbandierato da Farage come il tradimento della volontà popolare. Il leader dell’UKIP ha tutto il vantaggio a tenere alta visibilità e tensione dopo il Referendum: sarà un successo per lui, qualsiasi sia l’esito finale, visto l’ampio seguito del Leave.

Le conseguenze sul piano economico dipenderanno dall’esito delle trattative con Bruxelles. Quali i problemi principali da risolvere? E che opzioni sono aperte ?

L’asse portante dell’integrazione economica europea è il mercato unico; consiste nella libera circolazione di cittadini, beni, servizi e capitali; le regole per la gestione del mercato unico sono proposte da Bruxelles ed approvate dal Parlamento europeo e dagli stati membri che devono poi integrarle nella legislazione nazionale. Sono gestiti centralmente anche i fondi per lo sviluppo economico europeo, attraverso programmi di settore (ad esempio, la politica agricola comune) e di sviluppo regionale; gli stati membri provvedono a versare una quota di tali fondi e ricevono gli aiuti economici  da Bruxelles sulla base dei programmi. Infine Bruxelles ha la responsabilità di trattare i rapporti economici con i paesi esterni al mercato unico. In sostanza, i vantaggi dell’accesso al mercato unico per gli Stati membri sono “pagati” con la riduzione dell’indipendenza politica.

La Brexit aprirebbe quindi un numero di questioni importanti: il futuro di 3 milioni di europei in Gran Bretagna e due milioni di britannici in Europa (la libera circolazione dei cittadini); dazi e regole per l’import – export con l’Europa, che è il primo mercato britannico (la libera circolazione di beni e servizi); i rapporti con l’Europa nel settore dei servizi e della finanza, ove la Gran Bretagna gode della preminenza di Londra quale capitale finanziaria d’Europa (la libera circolazione di servizi e capitali); la sospensione degli aiuti europei alle aree meno sviluppate del paese, quali l’Irlanda del Nord; i rapporti economici con i il resto del mondo, sui quali Londra dovrebbe trattare da sola senza il vantaggio dell’intera economia europea alle spalle.

Esistono delle opzioni intermedie per Londra, piuttosto che l’uscita “in toto” dall’Europa. Ecco alcuni esempi di “integrazione esterna” con il mercato unico. La Norvegia è un caso di integrazione profonda, con l’adesione al mercato unico e la partecipazione ai programmi economici europei. In sostanza la Norvegia “paga” e “riceve” per la sua partecipazione esterna al mercato unico, come fanno gli stati membri. Ma non ha voce in capitolo sulle decisioni europee, sul budget ed i programmi. Si tratta quindi di opzione che riduce i rischi economici, ma non molto soddisfacente per i fautori dell’indipendenza politica.

La Svizzera non è parte del mercato comune e definisce le relazioni economiche con l’Europa tramite specifici trattati per partecipare ad alcuni programmi europei. E’ una forma d’integrazione “leggera”, che costa meno in termini di fondi versati a Bruxelles, ma che richiede comunque l’adesione alle regole europee per i programmi in comune. In sintesi, più soddisfacente per i fautori dell’indipendenza politica da Bruxelles. Ma la Svizzera non ha accesso al mercato dei servizi in Europa; le banche svizzere hanno filiali in Europa per servire il mercato europeo: una prospettiva da brividi per le istituzioni finanziarie della City, spina dorsale dell’economia della capitale.

Economia da una parte, indipendenza politica ed orgoglio nazionale dall’altra. Questo è il dilemma che i negoziatori britannici dovranno risolvere.

Giuseppe Citrolo

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Giuseppe Citrolo
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