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Trump, Brexit e migranti: come cambia il mondo

La crisi migratoria in Europa è una crisi tutta politica che impedisce una organizzazione coordinata dell’accoglienza. I numeri della migrazione sono importanti: dal 2000 ad oggi sono arrivati in Europa circa 15 milioni di cittadini extra-comunitari. La crisi economica e le guerre di questi ultimi anni hanno aumentato l’intensità dei flussi, mentre posti di lavoro e protezione sociale  diminuivano. Gli europei non hanno fiducia e vedono le migrazioni con preoccupazione, se non con paura; un sentimento diffuso che blocca i leader europei.

La Brexit, che adesso vive un periodo di schermaglie in attesa del voto al parlamento britannico, è il frutto più evidente della crisi migratoria. Nel Regno Unito sette milioni di persone vengono dall’estero; alle numerose comunità indiane, pakistane, bengalesi si sono uniti negli ultimi 10 anni centinaia di migliaia di migranti dell’est europeo; questa nuova ondata ha creato notevoli tensioni con la popolazione locale, che la associa all’aumento della criminalità e all’abbassamento dei salari, argomenti largamente strumentalizzati dalla politica populistica. Ed infatti uno dei temi scottanti con le autorità di Bruxelles è proprio la libera circolazione dei cittadini europei nel Regno Unito; un motivo di ansia per tanti che hanno costruito lì una nuova vita di lavoro e per i  cittadini britannici all’estero, che risiedono sopratutto in Francia e Spagna.

Theresa May conta di rinsaldare la “special relationship” con gli Stati Uniti, per poter negoziare da una posizione di maggior forza con gli europei; ma le recenti dichiarazioni di Trump su torture e campi di prigionia sono stati una doccia fredda per la leader britannica. L’arrivo di Trump alla casa Bianca ha poi riaperto il tema del muro con il Messico, aprendo una crisi diplomatica con il paese vicino; il Presidente vuole anche tagliare i fondi a quei sindaci che sostengono politiche di assistenza agli immigrati non regolari nelle loro città.

Gli Stati Uniti contano 40 milioni di stranieri, di cui 11 milioni sono messicani, su una popolazione di 320 milioni di abitanti. Si tratta però di un flusso migratorio in calo: le statistiche del 2015 indicano l’Asia, con Cina ed India in testa, come principale area di provenienza per l’immigrazione verso gli Stati Uniti. La migrazione dal Messico è in calo strutturale, per la grande espansione dell’economia del paese ed il calo delle nascite. Il Messico è oggi un paese di immigrazione per i poveri dell’Honduras e del Guatemala.

Ma il muro è per Trump una promessa elettorale ed un simbolo; non solo fermare chi vuole entrare da sud, ma fermare anche l’emorragia della produzione industriale verso il Messico. Il muro con il Messico e le minacce alle case automobilistiche che costruiscono lì le proprie vetture sono due aspetti della strategia anti-globalizzazione del magnate, la  sua ricetta “to Make America Great Again”; cioè, riportare industrie e lavoro agli americani, con scarsa cura degli effetti sui paesi vicini e sul piano internazionale.

Insomma, la chiusura e la cura del proprio benessere sembra oggi essere la risposta prevalente dell’Occidente alla sfida dei grandi flussi migratori.

Giuseppe Citrolo

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Giuseppe Citrolo
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