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Gli Usa di Trump e la “falsa” guerra all’immigrazione

È un luogo comune affermare che gli Stati Uniti sono una nazione di immigrati. In effetti gran parte dei 320 milioni di americani può rintracciare i propri antenati fra le decine di milioni di persone arrivate da ogni parte del mondo in Nordamerica fra l’inizio del diciassettesimo secolo e i nostri giorni. Fanno eccezione solo poche centinaia di migliaia di discendenti dei nativi americani, persone che in buona parte vivono ancora nelle riserve, conducendo spesso vite molto difficili ed ai margini della società caratterizzate da alti tassi di incarcerazione, alcolismo, tossicodipendenza e disturbi psichici.

Peraltro anche i nativi americani possono in un certo senso essere considerati discendenti di immigrati, seppur remotissimi :i loro progenitori infatti arrivarono in Nordamerica dall’Asia circa 15.000 anni fa. Al 1607, anno in cui fu fondata la prima colonia inglese sul suolo di quelli che sarebbero diventati gli Stati Uniti d’America (si trattava di Jamestown in Virginia), la popolazione degli Usa era di circa due milioni di persone, tutti nativi americani divisi in centinaia di tribù e gruppi linguistici diversi.

Fra il 1607 e il 1790, anno del primo censimento degli Usa resisi indipendenti nel 1787 dal dominio di Londra circa 600.000 inglesi, scozzesi, gallesi, irlandesi protestanti dell’Ulster, olandesi, tedeschi ed ugonotti francesi sbarcarono in cerca di una vita migliore in America; a loro vanno aggiunti 360.000 africani che nello stesso periodo furono trasportati con la forza nel nuovo mondo per lavorarvi come schiavi al servizio di padroni bianchi. Questa prima ondata di immigrati fu caratterizzata da una certa omogeneità religiosa: si trattava in massima parte di protestanti, con piccolissime minoranze di cattolici ed ebrei.

Nella seconda fase della storia dell’immigrazione verso gli Usa, quella che va dal 1790 al 1850 arrivarono nei porti americani 2,6 milioni di persone, per lo più irlandesi cattolici in fuga dalle terribili carestie che colpirono l’isola in questo periodo, tedeschi sia cattolici che protestanti ed inglesi in massima parte anglicani. Tra il 1850 e il 1890 arrivarono in America milioni di altri tedeschi (sia protestanti che cattolici ed ebrei) ed irlandesi (ancora una volta in massima parte cattolici); in questi 40 anni si registrò per la prima volta anche una massiccia immigrazione scandinava (soprattutto di svedesi e norvegesi) verso gli Stati Uniti: mentre gli irlandesi tendevano a stabilirsi in massa in città portuali industrializzate come Boston e New York City, gli scandinavi, come nel vecchio mondo, continuarono a fare gli allevatori e gli agricoltori anche nel nuovo paese, stabilendosi soprattutto in stati rurali come Wisconsin e Minnesota.

Nel periodo che va dal 1890 al 1914, grazie anche allo sviluppo della navigazione a vapore tra le due sponde dell’Atlantico, giunsero negli Stati Uniti qualcosa come 15 milioni di persone; questa vera e propria fiumana umana viene definita dagli storici “grande migrazione”; essa portò in America un vero e proprio crogiolo di diverse etnie e nazionalità: italiani, ebrei dell’Europa Orientale, polacchi, ungheresi, slovacchi, croati, ucraini, lituani, greci, portoghesi, armeni, libanesi, siriani e tanti altri ancora. Fra il 1914 e il 1965 furono invece molto pochi gli immigrati che giunsero negli Stati Uniti, a causa soprattutto di due guerre mondiali che sconvolsero il sistema internazionale delle comunicazioni e della crisi economica scoppiata nel 1929, che devastò l’economia americana facendo esplodere il tasso di disoccupazione nel paese.

In ogni caso, anche in questo periodo di stasi, alcuni riuscirono a entrare nel paese dell’American Dream: alcune migliaia di ebrei tedeschi e austriaci in fuga dal nazismo negli anni trenta, circa 80.000 ebrei dell’Est Europa sopravvissuti all’Olocausto intorno al 1950, circa 100.000 ungheresi dopo la fallita rivolta anti comunista del 1956, e infine circa 100.000 cubani terrorizzati dal nuovo regime comunista stabilito da Fidel Castro sull’isola caraibica nel 1959. Tra il 1965 e gli anni 2000 gli Stati Uniti, come ai primi del Novecento, sono di nuovo diventati un grande paese d’immigrazione; stavolta però i nuovi americani non provenivano più  come un secolo prima dal continente europeo, ma da quello che viene definito “Terzo Mondo”:America Latina, Africa ed Asia.

Così sono giunti negli Usa milioni di messicani, guatemaltechi, salvadoregni, dominicani, colombiani, nigeriani, etiopi, egiziani, iraniani, indiani, pakistani, vietnamiti, cinesi e sudcoreani. Oggi, su 320 milioni di americani, circa 40 milioni sono nati all’estero: la prima nazionalità sono i vicini messicani. Gli stati Usa preferiti dai nuovi immigrati sono ovviamente quelli più ricchi ed industrializzati: New York, New Jersey, Florida, Illinois, California e Texas. Nel gennaio 2017 si è insediata a Washington la nuova amministrazione repubblicana guidata da Donald Trump. In campagna elettorale il tycoon di New York City ha usato toni molto duri sul tema dell’immigrazione, promettendo giri di vite, espulsioni di massa e la costruzione di un vero e proprio muro al confine fra Stati Uniti e Messico.

Malgrado alcuni provvedimenti inquietanti che sembrano segnare una rottura con la tradizionale accoglienza statunitense, come il divieto di ingresso negli Usa per i cittadini di alcuni paesi musulmani, non credo che le aggressive promesse elettorali di The Donald si tramuteranno in realtà: l’immigrazione è troppo importante per demografia ed economia statunitensi perché Congresso e apparati dello stato profondo la lascino gestire da un miliardario con tendenze demagogiche ed una profonda inesperienza politica. 

Giuseppe Citrolo

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Giuseppe Citrolo
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