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L’eroismo quotidiano delle vittime di Capaci: il ricordo di Tina Montinaro

Quarto Savona 15 è una Fiat Croma. Il nome in codice allude alla sua missione. Una missione che si compie, il 23 maggio del 1992, quando l’autostrada che sta percorrendo esplode e l’auto salta in aria. La strage avviene a Capaci, sull’A29, ma quel boato lo sentono molto più lontano. Perché la bomba di Capaci esplode ovunque, in tutte le strade d’Italia.

Quarto Savona 15, oggi, è un giardino. Si trova dopo lo svincolo di Capaci, su quell’A29 saltata in aria 26 anni fa. È un giardino di ulivi e di nomi, di fiori e di sangue che celebra, con la terra, il sacrificio di quelli che sono morti. E non soltanto di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo e degli uomini della scorta che il tritolo di Capaci ha fatto saltare in aria. Gli ulivi di Quarto Savona 15 portano i nomi di Borsellino, di Cassarà, di Emanuela Loi, di Li Muli e di Traina e di tutti gli altri caduti del dovere.

In quel giardino, sulla passerella di legno che corre parallela all’autostrada ricostruita, ci accoglie Tina Montinaro che è la moglie – e non la vedova – di Antonio, uno dei martiri di Capaci, quel 29enne che guidava la scorta del dottor Falcone, come lo apostrofa Tina.

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Il ‘giorno della coscienza’: come il 23 maggio ’92 ha cambiato per sempre Palermo

Dopo quell’esplosione, dopo quel tremendo boato, nulla in Sicilia sarebbe più rimasto uguale.  L’assordante tuono del tritolo di Capaci ha svegliato un popolo prigioniero della sua inerzia, ha scosso milioni di cittadini assuefatti, ancora incapaci di alzare la testa. Certo, Brusca, Rampulla, Bagarella non potevano esserne al corrente. Non potevano sapere che quei 400 kg di miscela esplosiva li avrebbero condannati per sempre, avrebbero infranto decenni di silenzio. “Da quel momento, ci siamo resi conto che non potevamo più stare zitti”, ci dice Tina Montinaro che sente ancora quel rumore, quel rumore potente e terribile, capace di risvegliare le coscienze. I siciliani, a Capaci, hanno capito che Cosa Nostra non è poi tanto ‘Nostra‘ come sono stati abituati a pensare. I palermitani, a Capaci, hanno imparato che di mafia si può parlare, si deve parlare. Tina è certa. Quell’esplosione ci ha, finalmente, ridato la parola. Il silenzio è diventato un urlo. La voce dei morti è la voce dei vivi. “Se oggi abbiamo la possibilità di dire certe cose a voce alta, lo dobbiamo ai morti di Capaci”. Così parla Tina. E, mentre parla, sorride e alza la voce. Perché ‘a voce alta‘, 26 anni fa, non ci parlava nessuno. Perché, 26 anni fa, la mafia neppure esisteva. Perché parlarne, di quelli che tramano nel silenzio, significa ucciderli. “Forse la morte di mio marito non è stata inutile”. Continua a sorridere, Tina Montinaro, perché lei – del valore di quella morte – ci ha fatto un vessillo. E quel vessillo è diventato un giardino, una distesa di ulivi che abbraccia l’autostrada dove, mentre Antonio, Vito, Rocco, Francesca e Giovanni morivano, Palermo e il suo popolo ricominciano a vivere.

Il dovere, la paura e il coraggio delle vittime: “Mio marito non era un eroe”

Vittima del dovere. Così Tina Montinaro apostrofa Antonio, mentre presenta la panchina che la sua famiglia ha voluto intitolare a Giuditta Milella e Biagio Siciliano, i due adolescenti innocenti rimasti uccisi sul marciapiede di piazza Croci, travolti dall’auto della scorta del giudice Borsellino, fatalmente sbandata di fronte al liceo classico Meli. Era il 25 novembre del 1985. Oggi, sono trascorsi 33 anni. E quella Palermo, sconvolta dal lutto, continua a ricordarli. Di questo omaggio che commuove i presenti, Tina è stata l’ideatrice. Perché, come ci dice un’ora prima di scoprire le targhe, è la memoria a dare voce al popolo, a dare forma alla sua reazione.

Vittima del dovere, si diceva. “Mio marito non era un eroe”, riprende Tina e precisa: “Era un uomo che faceva il proprio dovere” Un uomo che ha compiuto quel ‘dovere‘ fino a morire. In fondo, è facile apostrofare come ‘eroi’ tutte le vittime cadute sotto i colpi della mafia. Il loro eroismo li allontana dalla nostra quotidianità, crea una mitologia dell’antimafia che, con l’impegno di Montinaro, di Schifani, di Dicillo, ha ben poco a che fare. Quegli uomini, ogni giorno, servivano lo stato. E avevano famiglie comuni, abitavano in appartamenti qualunque, pianificavano le loro vacanze. Con tutte le difficoltà che il loro delicatissimo ruolo comportava. ‘Ragazzini‘, li chiama Tina Montinaro. Ragazzini come suo marito che, quando ha deciso di difendere la vita del dottor Falcone, aveva 24 anni. Quando è morto, invece, ne aveva 29. “Anche mio marito aveva paura”, continua Tina. E sembra quasi che stia evocando tutte le volte in cui il suo giovanissimo marito, morto 29enne sull’autostrada di Capaci, quella paura gliel’ha manifestata. “Aveva paura, ma indubbiamente non era un vigliacco”, asserisce la donna che di quell’uomo, pieno di paure, si è innamorata. “Non l’avrei voluto diverso”, ci dice, quasi commossa. Sorride, ancora, perché ogni giorno, ricorda e celebra il sacrificio del ‘suo’ eroe. Un sacrificio che è iniziato molto prima della sua morte, quando ha scelto di scortare Falcone, un sacrificio che ha fatto innamorare Tina. Perché, avere una famiglia, per l’uomo della scorta di un giudice palermitano, era un incredibile atto di coraggio.

Mafia e Antimafia: i sogni e gli incubi di Palermo a 26 anni dalla strage

Oggi, quella Palermo che il tritolo di Capaci ha svegliato dal torpore, sembra precipitata in un incubo ancora più scuro. Quelli che dovevano difenderla, l’hanno tradita. ‘Vergogna‘ è la parola che Tina Montinaro dedica a certi sinistri paladini, finiti di recente sotto inchiesta. In fondo, l’Antimafia non la fanno certo i nomi eccellenti, ma le persone comuni. Persone come Antonio Montinaro, come Vito Schifani, come Rocco Dicillo: persone come noi. 

Palermo, oggi, è ancora città del silenzio. Ma questo silenzio non è più quello di un popolo prigioniero. Palermo tace, raccolta attorno agli alberi che riempiono il giardino di Capaci. Tace, mentre ricorda il sacrificio che le ha permesso di urlare. Perché, sotto il tuono di tritolo udito ovunque, Palermo si è ricordata di essere madre. Come Rosaria Schifani, come Agnese Borsellino, come Tina Montinaro.

Andrea Profeta

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Andrea Profeta
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