Perquisizioni in casa di giornalisti | L’errore di fondo della magistratura

di Domenico Giardina

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Perquisizioni in casa di giornalisti | L’errore di fondo della magistratura

| sabato 12 Ottobre 2013 - 21:14

Qualcuno la chiama casta, qualcun altro dice che se ne potrebbe fare a meno. Ma c’è anche chi ritiene che il loro lavoro sia fondamentale in una democrazia. Parliamo di giornalisti. Ovviamente di coloro che fanno questo mestiere seguendo il sacro fuoco della notizia. Di chi lo ha sempre fatto con la schiena dritta, consapevole di non esercitare solo un semplice lavoro, ma di compiere un servizio per la comunità.

Eppure, a fronte di tutto ciò, dobbiamo ancora leggere di perquisizioni in casa, nelle ore in cui di solito una famiglia si ritrova a colazione, quasi per evitare chissà quale manomissione di prove. Sfruttando un fattore sorpresa che di solito si applica a criminali incalliti, non a chi il malaffare lo denuncia giornalmente.

La vicenda di cui sono stati vittima Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza del Fatto Quotidiano e Riccardo Lo Verso di LiveSicilia, ha del paradossale. Raccontiamo in breve quanto accaduto. C’è una fuga di notizie su Totò Riina. I giornalisti in questione ne vengono a conoscenza e così come impone il loro mestiere ne scrivono e ne danno notizia alla collettività. Secondo quanto da loro riportato il capomafia corleonese continuerebbe a comandare anche dal carcere e hanno cercato di spiegare come questo possa accadere.

Ma ecco che, un sabato mattina tranquillo come tutti gli altri, su ordine del pm di Catania, Carmelo Zuccaro, scattano le perquisizioni del Nucleo investigativo di Catania. Tutto viene passato al setaccio: agende, computer, smartphone, memorie digitali, tablet, nulla viene lasciato al caso. Trattati alla stregua di chissà quale criminale. Eppure esiste in giurisprudenza la tutela delle fonti del giornalista. Garantite da ben due leggi: quella professionale, n. 69 del 1963, all’articolo 2 comma 3 e dal Testo Unico sulla Privacy del 2003. Per non parlare dell’articolo 200 del codice di procedura penale, comma 1 punto d, che ci rende edotti del fatto che “Non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione, salvi i casi in cui hanno l’obbligo di riferirne all’autorità giudiziaria: gli esercenti altri uffici o professioni ai quali la legge riconosce la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale”. Categoria nella quel rientrano i giornalisti. Solo un giudice può ordinare a un giornalista di rivelare le sue fonti, qualora necessario. Questo dal punto di vista giuridico.

Ecco perché la nostra solidarietà nei confronti dei colleghi è piena e totale. Perché è una solidarietà a difesa della categoria, della libertà d’informazione. Perché se fuga di notizie c’è stata non è il giornalista che ne deve rispondere, ma chi di questa fuga si è reso responsabile. Non sembra così difficile da capire, è un assioma. In Italia, però, troppo spesso ci si dimentica anche delle ovvietà.

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