Dal Mar Tirreno al Canale di Sicilia | Viaggio on the road sulla “fondo valle”

di Giuseppe Imburgia

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Dal Mar Tirreno al Canale di Sicilia | Viaggio on the road sulla “fondo valle”

| giovedì 02 Gennaio 2014 - 11:50

Abbandoniamo le Madonie (ma ci torneremo) per parlare di una delle due strade che uniscono il Mar Tirreno al Canale di Sicilia, due mari e due coste dalle caratteristiche diverse ma entrambi di straordinaria bellezza (spesso deturpata).

Tutto inizia con una telefonata ricevuta la sera di un freddo giorno pre-natalizio: “Domattina alle 6 allo svincolo di San Cipirrello”. Dall’altro capo del telefono Pippo Lo Cascio, autore, insieme con la moglie Francesca, di numerosi libri e pubblicazioni su Palermo e dintorni, mi invita perentoriamente a non mancare all’evento atteso un anno: il sole che all’alba attraversa il “campanaro” per il solstizio d’inverno. “Non capisco ma mi adeguo” rispondo, certo che non me ne sarei pentito. E così l’indomani, partito da casa che era ancora buio, scavalcata la circonvallazione all’altezza di viale delle Scienze, imbocco la strada statale 624 Palermo-Sciacca, da tutti conosciuta come “fondo valle”.

In genere la percorro distrattamente, cercando di scappare velocemente dal traffico e dallo stress cittadino. Quella mattina invece lasciavo scivolare, senza alcuna fretta, l’automobile tra le sinuosità di questo nastro d’asfalto, quasi interamente sospeso su piloni, che mi portava dall’altra parte della Sicilia.

Percorsi pochi chilometri sfioravo Altofonte, ancora tutta illuminata. Incastonata sul versante nord della Moarda, questa cittadina di poco più di diecimila abitanti, famosa per le sue fontane, vigila sulla meravigliosa vallata della Conca d’Oro. Ricchissima di boschi, acqua e selvaggina fu scelta da Ruggero II che lì volle il suo castello di caccia, poi trasformato nel 1307 da Federico II d’Aragona nell’Abbazia di Santa Maria d’Altofonte. Con i suoi 1.000 ettari di bosco Altofonte costituisce il polmone dell’area metropolitana di Palermo. Oggi è purtroppo quasi dimenticata, al contrario della sua dirimpettaia Monreale che invece continua a essere meta del turismo internazionale.

Continuo il mio viaggio tra ripidi crinali di roccia viva e cupi dirupi ricoperti da vegetazione spontanea di tipo mediterraneo che creano un paesaggio selvaggio di rara bellezza. Colpisce il contrasto con la città appena lasciata alle spalle. Nell’arco di pochi chilometri sono passato dal livello del mare agli 800 metri di portella Paglia. Da lì si comincia a scendere. All’inizio di un lungo rettilineo si incontra la deviazione che porta a Piana degli Albanesi, un curvone retto da esili pilastri, sconsigliato a chi soffre di vertigini. Siamo nella valle del fiume Jato e dopo pochi minuti appaiono i Comuni “siamesi” di San Giuseppe Jato e San Cipirrello. Giunto all’appuntamento, vengo accompagnato al punto di osservazione dove, intirizzito dal freddo, aspetto il sorgere del sole insieme ad un gruppo di studiosi di archeologia.

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Il “campanaro” è poco più di un puntino in alto sul costone del monte Arcivocalotto. Si tratta probabilmente di un calendario astronomico megalitico (ipotesi non condivisa da molti archeologi) con un grande buco dal quale vediamo passare i primi raggi del sole. Lo spettacolo valeva la levataccia. Voglio andare a vedere da vicino questo incredibile reperto. Lungo la strada incontro Pietralunga, suggestivo monolite di grande interesse archeologico. Quindi attraverso a piedi un campo arato, e mi trovo di fronte la sagoma forata del “campanaro” posta da secoli sull’orlo di un precipizio.

Nonostante io soffra di vertigini, non ho resistito dal farmi fotografare dentro il “buco” a pochi centimetri dal baratro! Sono ancora le 9 del mattino. Decido quindi di continuare la mia vacanza. Percorro i pochi chilometri che mi separano dalle grotte del Monte Raitano. Si tratta di cavità di varia grandezza, di cui soltanto due visitabili senza particolari equilibrismi, scavate nella tenera pietra costituita dall’alternarsi di liste di arenaria e di argilla.

Siamo di fronte al Monte Jato, uno dei siti archeologici più importanti della Sicilia. Sulla cima del monte a quasi novecento metri d’altezza, sorse Iaitas, antica città greca, divenuta secoli dopo l’ultima roccaforte arabo-islamica, distrutta poi per volontà di Federico II dopo un lungo assedio durato oltre tre anni. Recentemente ai piedi della montagna è stata identificata la fortificazione che faceva da base per le milizie sveve. Ma ritorniamo sulla strada principale.

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Appena lasciato alle spalle il comune di San Cipirello, lo spettacolo cambia: le rudi asperità dei monti si trasformano in dolci colline e piacevoli valli dove si susseguono per chilometri estesi campi arati e curatissimi vigneti. Il primo centro abitato che si incontra dopo molti chilometri è Poggioreale, ma prima di arrivarci vale la pena fare una piccola deviazione per ammirare il ponte Calatrasi. Un ponte normanno che consente il passaggio sull’altra sponda del fiume Belice dove si trova un’antico mulino. Dirimpetto l’omonimo castello in cima al monte Maranfusa. Anche qui antichi insediamenti normanni.

Giunti a Poggioreale (quella ricostruita ex novo), è impossibile non essere tentati da una deviazione per visitare i ruderi dell’antico paese. Lo scenario è surreale. Tutto sembra rimasto fermo a quel 15 gennaio 1968 quando il terremoto rase al suolo interi paesi della valle del Belice. Il silenzio invita a percorrere le vie deserte, tenute pulite da volontari. Tra le costruzioni distrutte, si distinguono le file di palchi del piccolo teatro-cinema, e volte affrescate spaccate a metà. Particolari che mettono i brividi. Anche il tramonto è struggente. Ancora una piccola trasgressione al percorso per vedere i ruderi di Gibellina, che l’artista Alberto Burri ha trasformato in un’opera d’arte contemporanea famosa in tutto il mondo: il grande Cretto.

Ritornato sulla strada maestra ricomincia l’alternarsi di campi lavorati e vignetitanti vigneti. Da qui alla fine della “fondo valle” abbiamo quasi il 50% della produzione viti-vinicola siciliana. Le zone D.O.C. sono Contessa Entellina, Sambuca di Sicilia, Menfi, Sciacca, Salaparuta. Al bivio per Contessa Entellina un’altra piccola deviazione mi consente di vedere la Torre Pandolfina (XIII secolo).

Continuo per Sambuca di Sicilia, l’austero Duomo, ormai chiuso da decenni, merita di essere ammirato purtroppo soltanto dall’esterno. A pochi passi il belvedere mi offre un ampio panorama in cui riesco a distinguere il monte Adranone, altro sito archeologico molto importante, e il bianco e maestoso castello di Giuliana. Prima di immettermi nuovamente sulla “fondo valle” percorro la sponda del lago Arancio in direzione della diga per visitare i ruderi semisommersi del fortino di Mazzallakkar (foto 38,39,40), residuo della dominazione araba (tra il IX e l’XI secolo).

Ancora pochi chilometri e si arriva a Sciacca. Ma purtroppo il mio giorno di vacanza è finito e devo fare ritorno a casa. Prima di avviarmi do uno sguardo alla carta stradale e mi accorgo di aver incrociato almeno 5 fiumi (Oreto, Jato, Pietralunga, Belice, Carboj), e sfiorato ben 4 laghi (Poma, Piana degli Albanesi, Garcia e Arancio). Poi dicono che in Sicilia non c’è acqua! È quasi buio e mancano pochi chilometri a Palermo: la valle dello Iato si copre di una densa nuvola bassa. Una soffice schiuma in fondo alla valle come un grande sipario chiude questa mia meravigliosa e inaspettata giornata pre-natalizia.

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