Jannuzzo, schizzi di lava: “La mia Sicilia, paradiso di contraddizioni”

di Redazione

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Jannuzzo, schizzi di lava: “La mia Sicilia, paradiso di contraddizioni”

| venerdì 15 Marzo 2013 - 10:45

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PALERMO, 16 MARZO 2013 – Gianfranco Jannuzzo dà forma ai ricordi, pieni dei colori della sua terra, nerissima e verdissima, tirando fuori pregi e difetti dei siciliani: “Tutti abbiamo pregi e difetti, ma al di fuori della retorica, i miei unici pregi derivano dal fatto di essere siciliano. Ospitalità, lealtà, amicizia, il culto della donna nel senso più ampio ed elevato, il sacro rispetto per la maternità, l’amore, l’amicizia, non conosco un siciliano che non abbia nel cuore la voglia di avere amici, tutti valori imprescindibili ai quali siamo abituati ma che sono unici”.

Gianfranco Jannuzzo, che fino al 24 marzo fa tappa a Palermo (porta in scena al teatro Al Massimo una commedia di Ken Ludwig che si intitola “Cercasi tenore”), quando parla della “sua” Sicilia è un fiume in piena, in cui intelligenza e mediterraneità si coniugano con la generosità delle sue emozioni timide e dirette che sembrano una salve di fuochi d’artificio.

“La mia famiglia era una famiglia tradizionale siciliana come ce ne sono tante, mio padre era un insegnante di lettere, mia madre una casalinga. Io ero il più grande di 5 figli. I miei, quando avevo 12 anni, decisero di andare via da Agrigento, dove vivevamo, per darci maggiori prospettive, per consentirci in seguito di frequentare l’università. Mio padre ottenne la cattedra a Roma. Ricordo benissimo cosa successe prima di partire: una riunione di famiglia dove noi ragazzini ci accordammo sulla necessità di lasciare la nostra città solo dietro la promessa di poterci tornare d’estate. E così fu”.

Il ricordo di quelle estati a Siculiana piene di scirocco e friscanzana gli fa brillare gli occhi di nostalgia.

“La verità è che questo cordone ombelicale non si è mai interrotto, questa terra non te la levi di dosso. Con la mia terra nel cuore riesco sempre a mettere qualcosa di siciliano nei miei lavori teatrali, come in questa commedia che si svolge su un modello americano. Ho lavorato con i più grandi maestri della recitazione italiana, da Gabriele Lavia a Gino Bramieri, a Maurizio Scaparro, ma un posto privilegiato nel mio cuore lo occupano artisti siciliani come Salvo Randone, un colosso, Turi Ferro, un grande, divenuti per me indiscutibili punti di riferimento dai quali ho preso qualcosa che mi è rimasto dentro per sempre. Oggi stimo molto Ficarra e Picone che esprimono una sicilianità che mi piace e mi diverte, allegra, garbata, dove viene fuori un comune sentire. Loro sono l’esempio di chi con orgoglio e ostinazione ce l’ha fatta basando tutto sul talento e la preparazione, punto sul quale vorrei soffermarmi perché attribuisco un’importanza fondamentale alla formazione artistica e teatrale dei giovani. Sono stato giovane anch’io e forse anche un privilegiato perché ho frequentato la scuola di Gigi Proietti che mi ha aperto la testa, mi ha insegnato che l’attore è tutto, deve sapere fare tutto. Gigi mi diceva: “Suona, balla, canta, sogna per fare sognare. Lo spettatore lo sa che sul palcoscenico c’è un pupo che fa una cosa finta ma vuole lo stesso che la cosa sia tanto finta da sembrare vera”. In fondo un attore ha il privilegio innato di rompere le barriere della sua realtà e aprire il mondo della fantasia, là dove i sogni fluiscono da uno all’altro.

“Hai presente il detto “cu nesce arrinesce”? Anche se ancora esiste il contrasto forte fra chi è disfattista e chi è sognatore i giovani stanno capendo che va bene andare fuori per studiare, ma poi è bello tornare per viverci in Sicilia. E questo mi rende felice, perché corrisponde ad una presa di coscienza delle proprie potenzialità e della possibilità di invertire i meccanismi negativi e avviare nuovi ingranaggi”.

“D’altra parte oggi assistiamo ad un cambiamento improvviso, anche in ambito politico, che segna l’inizio di possibili grandi svolte. Non voglio scomodare troppa cultura ma noi abbiamo avuto Federico II, che era sperto, gli piacevano le donne, gli piaceva mettere assieme culture e creare un grandioso laboratorio d’umanità: noi siciliani infatti, non sappiamo che cos’è il razzismo, ad Agrigento veneriamo san Calogero, un santo nero, nel messinese la Madonna nera di Tindari. Per noi gli altri sono sempre stati motivo di confronto, di curiosità, non di lotta forse perché ci siamo dovuti sempre difendere da chi veniva a conquistare. Ma poi se ci pensiamo bene, chi mai ha conquistato niente? Ci siamo formati una personalità complessa prendendo il meglio pur rimanendo con una fortissima identità siciliana che è sconvolgente proprio perché così variegata e articolata. Federico II faceva convivere ebrei, musulmani, religioni diverse, ed è un po’ quello che intende fare Crocetta. Fatte le dovute proporzioni, sta dimostrando di avere grande capacità di mettere d’accordo mondi lontanissimi, facendo una sorta di politica al massimo livello, là dove la politica è uno strumento elevatissimo: poi c’è un piccolo gruppo che inquina l’immagine generale, un po’ come quando si parla di mafia: quanti sono i mafiosi, qualche migliaio? Ci provano a sporcare l’immagine di questa terra, ma non ci possono riuscire mai. Non c’è niente da fare, io quando parlo di certe cose mi infervoro, qualcuno dice che divento come ” il cetriolo senza semenza”, ed è vero fino a un certo punto, perché lo so che quando parlo della Sicilia perdo un po’ la trebisonda”.

“Oggi comunque mi accorgo che i giovani cominciano finalmente a rendersi conto delle meravigliose potenzialità di questa terra magica e unica per le sue caratteristiche anche dal punto di vista morfologico: l’Etna, il fuoco, la terra, zone rigogliose, l’aridità della lava, la neve, il mare, le isole: è pazzesca ‘sta terra, un paradiso”.

Era la masculiata finale, siculamente.

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