La disoccupazione non esiste: analisi del lavoro al di là del “posto fisso”

di Redazione

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La disoccupazione non esiste: analisi del lavoro al di là del “posto fisso”

| lunedì 23 Settembre 2013 - 04:15

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PALERMO, 23 SETTEMBRE 2013 – Dal giorno in cui, come per l’ora del decesso, gli economisti hanno dichiarato che il mondo era entrato in una grave crisi economica e finanziaria globale, i dati sulla disoccupazione sono diventati come i bollettini di una guerra: si fa la conta dei morti e dei feriti (disoccupati, cassintegrati, in mobilità, ecc) e il numero è sempre più alto, anche se di una sola unità dietro una virgola. Una catastrofe sociale. 

 

E non soltanto perché i disoccupati, è vero, esistono – ma la disoccupazione no, non esiste (o almeno questo è il punto di vista che proveremo a sostenere per tutto l’articolo) – ma anche perchè questo argomento si è trasformato in un toccasana per politici e politicanti: basta parlare di lavoro che non c’è e dire “Dobbiamo creare occupazione” che immediatamente si diventa leader. 

 

Il sociologo e giornalista Andrea Molino, autore di un interessante e breve saggio intitolato, appunto, “La disoccupazione non esiste”, ha proposto di provare a sostituire nelle analisi sulla disoccupazione il significato letterale del termine con quello sociale: da “condizione di chi non ha lavoro / fenomeno sociale consistente nella scarsità dei posti di lavoro in relazione a coloro che li cercano” (Garzanti, 1996) a “situazione di estremo disagio, nella quale si trova un individuo che non riesce a procurarsi con il proprio lavoro i mezzi di sussistenza che gli permettono di condurre una vita dignitosa”. “Troppi ancora si definiscono disoccupati – scrive Molino – solo perché non hanno un contratto a tempo indeterminato, pur avendo rapporti di lavoro sufficienti per condurre senza problemi la propria vita”.

 

“Alcuni continueranno a sostenere che il nostro presupposto è assurdo e provocatorio – scrive Molino – ciò è in parte vero, ma smettiamola di parlare di disoccupazione e cerchiamo di dare una definizione corretta alle diverse realtà del mercato del lavoro. Non è un azzardo ipotizzare che i lavoratori non strutturati (da quelli a progetto a quelli “in nero”) rappresentino un volume pari a oltre il 70% del totale mercato del lavoro. È lavoro, in qualsiasi maniera esso sia svolto, quello che permette di sostenere economicamente un’esistenza dignitosa pur non essendo regolato da una impostazione razionale o in prospettiva di sviluppo, così come tutto quello che è lavoro non strutturato rispetto ai canoni ufficiali e che può essere razionalizzato per diventare un lavoro strutturato, inteso in una nuova accezione, e che ci permetta di vivere nel rispetto di una autonomia economica rapportata al nostro impegno”.

 

È evidente che, se accogliamo le definizioni del sociologo milanese, i numeri sulla disoccupazione dovrebbero essere, anche se soltanto di qualche punto, più bassi. Ed è bastato soltanto allontanarsi per un attimo dalla logica obsoleta del “posto fisso” e del lavoro “a tempo indeterminato”. È nell’esperienza di ognuno di noi avere intorno gente che si lamenta di non avere lavoro, ma che sappiamo benissimo avere un’attività per sostentarsi. Quanto meno per vivere dignitosamente. Così come è nell’esperienza comune avere a che fare con giovani, o meno giovani, che, inoccupati o disoccupati, rifiutano delle proposte di lavoro, tra le loro aspettative o meno, per via dei troppi sacrifici da affrontare o perché la paga non è considerata all’altezza dell’impegno. “Generazione senza” li hanno definiti: senza sogni, senza prospettive. Senza voglia di stancarsi, aggiungiamo noi, senza paura di essere paragonati all’ex ministro berlusconiano Renato Brunetta.

 

“Non è vero che il lavoro non c’è – spiega Marcella Cannariato, imprenditrice palermitana. – Nella mia azienda non bastano 24 ore. Anche coloro che collaborano solamente sono in realtà imprenditori di loro stessi. È questa la nuova logica in cui bisogna entrare. E non si può contestare il fatto che almeno al momento dell’inserimento in azienda, fondamentale momento conoscitivo, le paghe siano spesso più basse del dovuto. Anche quando non si tratta di gavetta, quello è il momento dell’investimento: il lavoratore deve farsi conoscere dal datore di lavoro, dimostrare che può produrre utili, così che poi quest’ultimo potrà ripagarlo come merita. È un investimento iniziale da ambedue le parti, anche perché spesso ci vogliono tempi lunghi per addestrare qualcuno alle mansioni. Sforzi e sacrifici, prima o poi, saranno sempre ricompensati. Lo so bene – ammette Cannariato – che spesso i datori di lavoro se ne approfittano ed è qui che dovrebbero intervenire le leggi. I politici non devono creare posti di lavoro, ma spianare la strada affinchè il lavoro si generi”.

 

Il vero problema sta, quindi, non nella disoccupazione, ma nella occupazione non strutturata, a cui una società come quella italiana, respingente nei confronti dei cambiamenti, non è riuscita ad abituarsi. Dovranno passare forse un paio di generazioni prima che i genitori, figli di una cultura senza il posto fisso, possano tramandare ai figli la loro esperienza, migliorandoli e abituandoli a pensare in maniera nuova e differente. Anche se, per dirla con Andrea Molino, lungi da noi esprimere un giudizio etico.

 

Disoccupazione, a nostro avviso, è più un problema, e serio, legato a quei lavoratori già cinquantenni, a volte sessantenni (a causa delle riforme pensionistiche), che, per cause realmente legate alla crisi economica, si ritrovano senza un lavoro. Riciclarli è difficile, a volte impossibile. È per loro che i politici dovrebbero trovare soluzioni, e non soltanto retoriche. Ai più giovani auguriamo, come ha detto ieri il Papa da Cagliari, di non perdere la speranza. E soprattutto la voglia di mettersi in gioco.

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