Il 25 aprile raccontato da Nello Musumeci | Una lettura “diversa” di quel giorno che cambiò la storia italiana

di Francesco Lamiani

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Il 25 aprile raccontato da Nello Musumeci | Una lettura “diversa” di quel giorno che cambiò la storia italiana

| venerdì 25 Aprile 2014 - 08:30

La storia dalla parte dei vinti. L’altra faccia del 25 aprile, in Sicilia, ha il volto di Nello Musumeci, presidente della Commissione Antimafia all’Ars, esponente storico della Destra isolana, ma anche studioso e appassionato di quel periodo complesso e controverso che è stato il ventennio fascista e gli anni immediatamente successivi. Per Musumeci quella storia contemporanea è una piacevole ossessione, una ricerca delle verità che nel giorno della Liberazione diventa lo strumento di una lettura diversa di quei giorni che cambiarono per sempre la storia italiana.

È innegabile che negli ultimi tempi si è avviato un percorso di revisionismo del periodo successivo alla caduta del fascismo e della guerra civile. Analisi che spesso hanno provocato mugugni e critiche feroci nonostante siano passati quasi 70 anni. Eppure secondo Musumeci le questioni sono da ricercare anche in un passato piuttosto recente.

“La mia generazione – spiega il parlamentare regionale – è cresciuta e si è formata nel pensiero unico voluto dai vincitori, secondo i quali i buoni stavano tutti da una parte e i cattivi dall’altra. Si faceva finta di non capire che quando una nazione subisce l’onta della guerra civile non ci sono né vinti né vincitori, perché è la nazione che perde.

Vedete, chi moriva da partigiano era convinto di essere dalla parte della ragione, chi moriva da fascista era convinto di avere imboccato la strada della coerenza, della fedeltà e dell’onore. Per 50 anni siamo stati abituati a considerare l’antifascismo come sinonimo di libertà e democrazia, ma non è così: perché tutti i democratici erano antifascisti, ma non tutti gli antifascisti erano democratici”.

Ci spieghi meglio

“È un equivoco che ci siamo portati dietro per 50 anni, proprio in nome del pensiero unico. Perché alla fine si è capito e si scoperto che sul fronte dell’antifascismo c’era chi combatteva perché l’Italia fosse restituita alla libertà e la democrazia, valori che la generazione di mio padre, nato nel 1911, non aveva mai conosciuto e che non aveva potuto apprezzare, ma combatteva perché l’Italia potesse diventare uno stato satellite dell’Urss: un obiettivo che una parte del Pci, come è stato dimostrato, cercò di perseguire fino al 1948″.

In Sicilia gli alleati erano sbarcati nel 1943, ma furono tanti i ragazzi che scelsero di proseguire la guerra dall’una e dall’altra parte

“È vero. Ci furono tanti partigiani, ma dalla Sicilia ci fu anche una spinta emotiva che, dopo l’8 settembre, contaminò centinaia di persone che scelsero di combattere per salvare l’onore dell’Italia e quindi per seguire la strada della coerenza. Mi sembra opportuno però ricordare che mentre da un parte c’era comunque la speranza che prima o poi sarebbe finita con la vittoria, dall’altra si cercava solo la via della fedeltà”.

Lei, nei suoi studi, si è occupato di molti ragazzi che scelsero la ‘parte sbagliata’, chi erano?

“Giovani, meno giovani e giovanissimi. Penso a Gaetano Laterza che andò al Nord  a fare il giornalista e l’attivista del Partito fascista repubblicano, una delle più belle intelligenza che poi abbia avuto la Destra politica siciliana nel dopoguerra. Al catanese Concetto Pettinato che sviluppò una campagna di sensibilizzazione culturale assumendo la direzione de La Stampa di Torino o a Giacomo Etna che dal Popolo di Sicilia andò a dirigere L’Arena di Verona. E penso anche ad Angelina Milazzo, giovanissima catanese, che si arruolò nelle ausiliarie della Rsi e con il suo corpo riuscì a coprire da una raffica di mitragliamento di un aereo americano una ragazza civile incinta. E per questo atto di eroismo venne decorata”.

C’è, oltre a queste, qualche storia in particolare che possiamo raccontare?

“Sicuramente quella di Filippo Anfuso, un diplomatico di carriera e mai fascista convinto, che dopo l’8 settembre con uno spirito romantico autenticamente siciliano scrive a Mussolini liberato sul Gran Sasso un telegramma passato alla Storia: Duce con voi sino alla morte. Scelse la Repubblica Sociale, chiese e ottenne di essere destinato all’ambasciata di Berlino e lì, per 600 drammatici giorni, si impegnò a favore degli ebrei, dei perseguitati e degli internati italiani.

Non è un caso che la Corte d’Assise di Perugia, nel 1949, lo assolse con una sentenza che è da incorniciare e non è un caso se poi venne eletto per tre volte deputato. Al processo di Gerusalemme contro Adolf Heichmann viene appunto citato dal pubblico ministero come le autorità diplomatiche della RSi non avessero cooperato con le autorità tedesche nella ricerca di ebrei. Pensi, Vitaliano Brancati, grande amico di Anfuso, testimoniò in favore del diplomatico catanese facendo anche i nomi di quegli ebrei che furono salvati dal gerarca Anfuso ed emigrarono negli Usa”.

Ci sono, però, anche storie con un finale diverso…

“Penso soprattutto ai tanti semplici cittadini o funzionari pubblici che morirono al Nord per mano dei partigiani. Lo zio dello scrittore Matteo Collura, Francesco ad esempio, che venne trovato senza occhi, e stessa sorte toccò ad un catanese che abitava in via Aurora. O al commissario prefettizio a Ponte di Legno, Carmelo Bandieramonte, che venne prelevato da una squadra di partigiani e poi venne condannato a morte per impiccagione: colpevole solo di essere un funzionario della Rsi. Pensate, nella lettera d’addio alla madre chiama ‘fratelli’ coloro che lo uccideranno”

Da politico e studioso che idea si è fatto di quel periodo?

“I valori della democrazia e della libertà, che sono assolutamente irrinunciabili, non devono farci perdere il significato della guerra civile. Accanto all’impegno politico ed ideale che impegnava gli italiani dall’una e dell’altra parte si scatenò una furiosa carneficina dettata da rancori, vendette personali, gelosie.

Credo che migliaia di morti dall’una e dall’altra parte, oggi, debbano invitare ad una serena riflessione non perché si possa demonizzare l’avversario, ma perché si abbia il coraggio di dire che soltanto se l’Italia riuscisse a condividere la sua storia nel bene o nel male possiamo essere nelle condizioni di costruire un futuro su basi solide e su valori condivisi. Penso che la demonizzazione di una parte del popolo italiano non consentirà mai di arrivare ad una memoria condivisa”.

Da uomo di destra, per lei, che cosa è il 25 aprile?

“Le racconto una aneddoto. Sono stato il primo post fascista della Repubblica ad essere eletto presidente della Provincia. Era la primavera 1994 quando mi raggiunse il capo-ufficio stampa della Provincia che con un certo imbarazzo mi chiese cosa volessimo organizzare per il 25 aprile.

Di solito l’Ente partecipava al corteo e con un manifesto che esalta i valori della Liberazione. ‘Se per lei va bene lo ristampiamo’, mi disse. Io senza bisogno di leggerlo risposi che avrei scritto di mio pugno quel manifesto. Scrissi di pacificazione nazionale, di rispetto per i caduti dell’una e dell’altra parte. Venne affisso in tutta la provincia di Catania e ovviamente in città. Io non partecipai alla manifestazione ufficiale, ma con gli assessori andammo al cimitero angloamericano, a quello tedesco e al monumento dei caduti italiani in piazza Nettuno.

Tutti erano convinti che si sarebbe scatenata la reazione delle associazioni partigiani e antifasciste, dei partiti del centrosinistra e invece ci fu un silenzio che sapeva di rispetto. Appariva chiaro come quella mia scelta, inedita, era finalizzata ad esaltare i valori della democrazia e della libertà, ma anche a rendere omaggio a chi a 20 anni era morto per un ideale che sapeva diverso, ma che riteneva non sbagliato”.

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