Ice Bucket Challenge, un anno dopo ecco i risultati della ricerca finanziata dalle “secchiate d’acqua”

di Redazione

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Ice Bucket Challenge, un anno dopo ecco i risultati della ricerca finanziata dalle “secchiate d’acqua”

| giovedì 20 Agosto 2015 - 17:38

Un anno fa le secchiate d’acqua ghiacciata, l’Ice Bucket Challenge, conquistavano pian piano il Web, tra gli scettici che le consideravano soltanto un modo per mettersi in mostra e chi invece decideva di aderire e donare alla ricerca per la Sla. Negli Stati Uniti, l’Ice Bucket Challenge è riuscita a raccogliere 220 milioni di dollari, mentre in Europa sono stati racimolati “soltanto” 106 milioni di euro.

A rivelarlo è un team di scienziati della John Hopkins University, che hanno appena pubblicato uno studio sulla rivista “Science”, donando nuova speranza ai malati di sindrome laterale amiotrofica. Philip Wong, leader di questo gruppo di ricercatori, ha parlato di una scoperta rivoluzionaria che avrebbe cercato di portare a termine per oltre 10 anni. “Senza la campagna [dell’Ice Bucket Challenge] – spiega Wong – non saremmo stati in grado di concludere la nostra ricerca così rapidamente”, scoprendo il ruolo chiave di una proteina, chiamata TDP-43, che decodifica il Dna al momento dell’insorgenza della malattia.

Prima della scoperta di Wong, gli studiosi non erano ancora riusciti a capire se gli agglomerati della TDP-43, presenti all’esterno del nucleo delle cellule cerebrali dei pazienti affetti da Sla, fossero causa o effetto della malattia. Grazie ai fondi raccolti, gli scienziati hanno capito che nei soggetti malati la proteina si scompone, incollandosi alle cellule: perde poi la sua capacità di leggere il Dna, portando alla morte dei nuclei cerebrali.

Riuscendo a capire il ruolo della TDP-43, i ricercatori hanno effettuato dei test sui topi di laboratorio, iniettando nei loro neuroni una proteina con una struttura e un meccanismo simile a quello della TDP-43. Così facendo, le cellule cerebrali sono riuscite a riattivarsi, tornando alla normalità: trasposta sugli esseri umani, questa cura potrebbe rallentare o frenare gli stadi avanzati della sindrome.

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