Borsellino, i giudici: “Tra i più gravi depistaggi della storia italiana”

di Emanuele Termini

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Borsellino, i giudici: “Tra i più gravi depistaggi della storia italiana”

| domenica 01 Luglio 2018 - 07:23

Le indagini sulla strage di via D’Amelio del 1992 in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli uomini delle sua scorta furono depistate. Secondo la corte d’assise di Caltanissetta  “vi fu uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana” con protagonisti uomini dello istituzioni. È quanto emerge dalle motivazioni depositate dalla corte a 14 mesi dalla conclusione del processo sulla strage di via D’Amelio: 1865 pagine che puntano il dito contro i servitori infedeli dello Stato che assoldarono piccoli criminali facendoli passare per gole profonde di Cosa nostra, costruendo così una falsa verità sugli autori dell’attentato. 

Il dispositivo emesso il 20 aprile del 2017 portò alla condanna all’ergastolo per strage Salvino Madonia e Vittorio Tutino e a 10 anni per calunnia Francesco Andriotta e Calogero Pulci, finti collaboratori di giustizia usati per mettere su una ricostruzione a tavolino delle fasi esecutive della strage costata l’ergastolo a sette innocenti. Per Vincenzo Scarantino, il più discusso dei falsi pentiti, i giudici dichiararono la prescrizione concedendogli l’attenuante prevista per chi viene indotto a commettere il reato da altri. Ovvero quegli investigatori mossi da “un proposito criminoso” e che esercitarono “in modo distorto i poteri”.

La strage di via D’Amelio e le verità nascoste

Il gruppo che indagava sulle stragi del ’92 guidato da Arnaldo la Barbera, funzionario di polizia poi morto – secondo la corte di Caltanissetta – avrebbe costretto Scarantino a raccontare una falsa versione della fase esecutiva dell’attentato. Sarebbero stati loro a compiere “una serie di forzature, tradottesi anche in indebite suggestioni e nell’agevolazione di una impropria circolarità tra i diversi contributi dichiarativi, tutti radicalmente difformi dalla realtà se non per la esposizione di un nucleo comune di informazioni del quale è rimasta occulta la vera fonte”.

E qual è la motivazione che si cela dietro questo enorme depistaggio? La corte ipotizza la copertura della presenza di fonti rimaste occulte, “che viene evidenziata – scrivono i magistrati – dalla trasmissione ai finti collaboratori di giustizia di informazioni estranee al loro patrimonio conoscitivo ed in seguito rivelatesi oggettivamente rispondenti alla realtà”, e, sospetto ancor più inquietante, “l’occultamento della responsabilità di altri soggetti per la strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra Cosa Nostra e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del magistrato“.

La Barbera e i suoi uomini mentirono 

Da parte dei magistrati, poi, si evince grande attenzione per l’agenda rossa del giudice Paolo Borsellino sparita dal luogo dell’attentato. Anche in questo caso un ruolo decisivo lo svolse La Barbera che, secondo la corte, ebbe un “ruolo fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia ed è stato altresì intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa, come è evidenziato dalla sua reazione, connotata da una inaudita aggressività, nei confronti di Lucia Borsellino, impegnata in una coraggiosa opera di ricerca della verità sulla morte del padre”.

Ma i pm della Procura Stefano Luciani e Gabriele Paci non si arrendono. Grazie alle rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza hanno riaperto le indagini sulla strage scoprendo il depistaggio e adesso vogliono andare ancora più a fondo. 

Le nuove indagini

E a poche ore dal deposito della sentenza, la Procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio di tre poliziotti: il funzionario Mario Bo (indagato per gli stessi fatti e che ha poi ottenuto l’archiviazione) e i poliziotti Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. Per tutti l’accusa è di calunnia in concorso.

Mario Bo è il funzionario di polizia che faceva parte del pool che coordinò le indagini sulla strage del 19 luglio del 1992. Gli agenti Mattei e Ribaudo facevano parte dello stesso gruppo investigativo. Avrebbero confezionato una verità di comodo sulla fase preparatoria dell’attentato e costretto il falso pentito Vincenzo Scarantino a fare nomi e cognomi di persone innocenti. 

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